DAL BACO ALLA FILANDA, FINO AL CORREDO

LA SETA, LE FILANDE, I FILATOI

Per secoli le nostre campagne sono state caratterizzate dalla forma tozza dei gelsi che fino a pochi decenni fa segnavano i confini delle proprietà. Le famiglie contadine, e in particolare le donne, si sono impegnate nell’allevamento dei bachi, ghiotti di gelso, sulle stuoie in cucina e in camera da letto. I bozzoli, trasferiti nelle filande venivano prima essiccati per uccidere le crisalidi e poi immersi in acqua calda per sciogliere la sericina, ossia lo strato gommoso che li rivestiva e per permettere al filo di svolgersi.

Nelle filande lavoravano le “virere”, addette a girare a mano l’aspa su cui si avvolgeva il filo di seta che usciva dalla bacinella piena di bozzoli; le “filere”, o filatrici, meglio retribuite, giudicavano quando era necessario variare la temperatura dell’acqua della bacinella per adattarla alle diverse fasi della lavorazione, per mantenere costante la grandezza del filo, aggiungendo o togliendo qualche bava, e riannodarlo se si spezzava.

Nel filatoio era in funzione un insieme complesso di macchine. L’incannatoio meccanico provvedeva a far passare la seta, che arrivava dalle filande sotto forma di matasse.

Nel ‘700 Alessandria restava integrata al mondo agricolo. Le filande venivano confinate alla periferia. Negli anni Settanta dell’800, in via Ravanale, sorgevano le filande Montel e Ceriana, che contribuirono ad aumentare i nuclei di manodopera salariata delle prime fabbriche. 

Dall’inizio del ‘900, fin verso gli anni ‘40 anche ad Alluvioni Cambiò, l’allevamento del baco da seta (bigat) veniva praticato in quasi tutte le famiglie e rappresentava un fatto di notevole rilevanza economica. La disponibilità dei locali ne condizionava l’entità e molto frequentemente chi non aveva “ra bigatera” o stanze a sufficienza non esitava a montare il “brac”, un insieme di stuoie di canne disposte a castello, anche in camera da letto; questa convivenza non destava nessuna repulsione, il bisogno economico sovrastava qualsiasi disagio. Era un’attività delicata che specialmente all’inizio richiedeva particolari attenzioni. Il ciclo vitale del baco durava 40 giorni e in quel breve periodo tutta la famiglia aveva un impegno notevolissimo; uomini, donne e bambini passavano intere giornate sui gelsi a “sburà ra foia”, a raccogliere la foglia per sfamare i voracissimi bachi quattro volte al giorno, cambiare la lettiera, “imboscarli”, ovvero preparare una siepe di rami secchi tra una stuoia e l’altra dove potessero arrampicarsi e tessere il bozzolo. Era un lavoro intenso ma remunerativo, i soldi ricavati dalla vendita dei bozzoli costituivano le prime entrate dell’annata.

All’inizio del secolo ma anche dopo, le ragazze potevano entrare in filanda già a 12 anni. Il lavoro più gravoso era quello delle “squer” (scopinatrici: operai addette a pulire il bozzolo con l’apposita spazzola) che stavano tutto il giorno con le mani immerse nell’acqua calda. Altro lavoro complesso era quello delle filere che dovevano cercare il capo, comporre il filo del diametro stabilito e fare le matasse di seta era più delicato e richiedeva altrettanta attenzione.

L’orario di lavoro era molto gravoso, si lavoravano anche 12 ore al giorno, dalle 5.30 alle 19.30 . Solo dopo il 1924 quando la produzione iniziò a diminuire diminuirono anche le ore di lavoro, che scesero a 8.

La paga era modesta, negli anni ’20 era di 2 lire al giorno; era poco ma garantiva la sicurezza di un lavoro che, salvo qualche interruzione, durava tutto l’anno.

La lavorazione dei filati è stata ampiamente esercitata nel nostro territorio sin dall’età rinascimentale. Qui e altrove, la dimensione dell’azienda era la piccola bottega familiare, che appaltava il lavoro avvalendosi di tessitori a domicilio, ma c’erano anche alcune piccole filande e una sviluppata rudimentale industria dei fustagni.

Con il passare degli anni anche a Valenza si riduce l’attività domestica dei filatori a mano e sorgono dei veri e propri opifici di fustagni (un tessuto misto di lino e cotone) a manodopera femminile.

Poi, nell’Ottocento, si afferma dalle nostre parti la lavorazione della seta in tutte le sue fasi: dalla coltura del baco da seta nelle abitazioni delle famiglie contadine, sino alla lavorazione del filo nei locali delle filande.

L’allevamento è curato nelle case campestri generalmente nella stanza dove si vive. I bachi sono adagiati su graticci o intelaiature di legno con sottofondo in canne o tela, accatastati per guadagnare spazio. I “bigat”, nati dalle uova, vengono messi sulle stuoie e alimentati con foglia fresca sino a che diventano bossoli per la filanda. Nella fabbrica, la prima fase di lavorazione è l’essiccatura per rendere più asciutta la seta e per far morire i “bigat” all’interno del bozzolo.

Le prime notizie documentate, relative all’attività delle filande di seta a Valenza, risalgono al periodo napoleonico, quando ad Alessandria esiste già un’avviata produzione con 3 fabbriche e circa 200 operai occupati. Nel 1822 risultano attive a Valenza 6 filature di bozzoli.

Nel 1836 ci sono 3 filature che trattano annualmente diversi quintali di bozzoli (Kg 2.830 di seta cruda) e che occupano 90 donne e 78 ragazze, un filatoio di seta con 60 donne e 9 uomini.  A far da cornice a tutto ciò ci sono i telai casalinghi che trattano lino e canapa: sono più di 200 e occupano circa 500 persone.

Negli anni seguenti, segnati da importanti eventi patriottici, a causa dello sviluppo di epidemie e morbi vari come il colera (nel 1864), vengono emanate diverse norme igieniche su questa attività produttiva che risulta essere ora la principale della città. Tra queste disposizioni c’è l’obbligo di trasferire a più di 600 metri dall’abitato, in botti chiuse, le acque utilizzate per la macerazione e la bollitura dei bozzoli che deve essere eseguita solo di notte.

Il salario giornaliero delle filandere o filandaie oscilla tra lire 0,50 e 0,90, per gli uomini sulle 2 lire. Molte le ragazze di età inferiore ai 14 anni il cui salario giornaliero è inferiore a 0,50 lire. La vasta disponibilità di manodopera e la quasi totale mancanza di controlli favoriscono uno sfruttamento indiscriminato.

Per mancanza di alternative, queste giovani vessate e rassegnate sono costrette a lavorare in un ambiente afoso, a circa 50 gradi di temperatura. L’aria è sempre carica di un vapore nauseabondo, che tende a tramutare il locale in una sorta di caldaia permanente. Oltretutto, per mantenere un’umidità costante e necessaria a filare la seta e per evitare che l’aria rimuova il filo di seta negli aspi, le finestre restano chiuse. L’ambiente risulta quindi continuamente immerso in una nebbia calda, chiaramente non salutare per le lavoratrici.

L’odore prodotto da questa lavorazione si sparge anche sulla città che è per questo coperta da una nube allarmante. Sono dettagli, ma non di poco conto; infatti, nel 1872 viene emanato dall’autorità pubblica un divieto a insediare altre filande nell’abitato cittadino.

Dopo il secondo conflitto mondiale per l’allevamento del baco da seta ha inizio un periodo di grave crisi, a causa dell’industrializzazione, che opera una profonda trasformazione dell’economia del nostro paese.

Oggi l’arte della seta si ripropone all’attenzione del mondo agricolo nazionale, quale attività alternativa, per quanto riguarda la diversificazione delle colture a sostegno dell’ambiente secondo le indicazioni della politica comunitaria e quale attività integrativa sotto il profilo economico.

Nel nostro Museo è presente un microscopio da bacologo, con cui veniva controllato il baco da seta, selezionando gli esemplari sani per ottenere una migliore resa nella produzione; e una cassetta del bacologo Gedeone Prosperi.

IL CORREDO

Quasi tutte le ragazze del passato sapevano tracciare sulla stoffa i principali punti, ma la ricamatrice era una professionista che imparava in qualche scuola di ricamo e sulla quale si aggiornava attraverso riviste specializzate. Sapeva rendere preziose tovaglie, lenzuola, camicette, camicie da notte, tovaglie da altare.

Fin dall’infanzia sotto la guida delle donne di famiglia, le bambine imparavano ad imbastire, orlare, rifinire; si esercitavano anche nel ricamo e preparavano lenzuola, federe, asciugamani, grembiuli, strofinacci e biancheria.

Nel 1800 l’agreo, o fardello, cioè il corredo della ragazza, risulta essere un vero peso economico per la famiglia in vista del futuro matrimonio delle figlie femmine. L’agreo era registrato con atto notarile insieme alla dote, che rappresentava una sorta di liquidazione patrimoniale per la figlia che lasciava la casa paterna, e poteva consistere in denaro o in beni materiali. Nel corredo si trovano cuffiette da notte e da mattina, giacchetto (una corta giacca, stretta in vita, che si portava sulla camicia da giorno), mutandoni o tubi della decenza, fazzoletti.

Sono presenti macchine da cucire Jones degli anni ’30, di cui una utilizzata soltanto per finalità domestiche e donata al Museo nel 2015.

In vetrina possiamo osservare un set di strumenti utilizzati per ricamare gli indumenti del corredo, alcuni  abiti da battesimo del ‘900, una sottoveste in seta del 1925.